In corsia, per far sorridere i bambini
Le ragazze del Nord Est viste con l'occhio di due scrittori
L’appuntamento è fissato alle quattro di pomeriggio davanti all’ingresso dell’ospedale. È una bella giornata di sole e il corpo bianco e massiccio dell’edificio appare sbalzato contro l’azzurro intenso del cielo. Il traffico della tangenziale è una vibrazione bassa e costante che stordisce un po’. Stefania, il nostro contatto, arriva in bicicletta. Ventiquattro anni, lunghi capelli neri e un sorriso aperto, pieno di ottimismo. Posa sull’asfalto la borsa con gli attrezzi di lavoro, diciamo così, e ci stringe la mano. «Il reparto di pediatria è al sesto piano », dice. «Cominceremo da quello, come sempre». Gli altri volontari arrivano alla spicciolata. Nel giro di pochi minuti si radunano una dozzina di persone. Sono tutti giovani, fra i venti e i trent’anni. Le ragazze appaiono in netta prevalenza. Ognuno di loro porta a tracolla la borsa con parrucche colorate, nasi finti, palle rotonde da fissare sulla punta delle scarpe: il corredo dei clown.
Nonostante la giornata di pieno sole, all’interno del grande atrio dell’ospedale l’atmosfera è quasi notturna: poche vetrate, grandi neon accesi che riverberano riflessi liquidi sul pavimento lucido. Il gruppo dei volontari si dirige verso i bagni. Entrano come ragazzi qualunque, vestiti con jeans e piumini. Pochi minuti dopo ricompaiono trasformati. Grembiuli a pois. Pomelli rossi sulle guance. Grandi, giganteschi occhiali di gomma. E tutta una variegata serie di attrezzi: ombrelli, trombette, palloncini, bacchette magiche. Stefania indossa un mantello giallo a righe nere. «Il mantello-ape» ride. La sua parrucca color fucsia la fa sembrare ancora più giovane. «Il clown è la maschera più piccola del mondo» dice. «Un naso finto e via. Quanto ti travesti, non diventi un’altra persona. Al contrario, diventi chi sei davvero». Raggiungiamo tutti insieme al sesto piano. L’infermiera saluta con un sorriso dalla guardiola. Alle pareti del corridoio ci sono grandi disegni. Bruchi che escono dalla mela, rondini in volo, funghi giganti. Anche poster di tramonti sul mare e paesaggi alpestri. La maggior parte delle stanze hanno le porte aperte. Accanto ai letti dei piccoli ricoverati ci sono padri e madri. Alcuni bambini stanno disegnando o leggendo. Altri hanno un’aria stanca, esausta, che impedisce qualsiasi attività. C’è un libro che tutti dovrebbero leggere a proposito della sofferenza infantile - tutti i fortunati che non ne hanno avuto esperienza diretta. Si intitola Per tutta la notte, del francese Philippe Forest. Lì dentro c’è ogni cosa. I giovani clown si disperdono nel regno della sofferenza più profonda, più ingiusta e inspiegabile. Entrano a coppie nelle stanzette, si avvicinano ai letti. «Bisogna stare molto attenti, quando si entra - dice Stefania -. Bisogna trovare subito la distanza giusta. Né troppo vicini, né troppo lontani. Se vai troppo avanti rischi di disturbare, spaventare. Se resti troppo indietro, rischi di non stabilire alcun contatto. È questione di centimetri ».
Subito il reparto si anima. Palloncini in aria. Suoni di trombette. Battimani. I piccoli malati, dai loro letti, sgranano gli occhi con divertimento. Anche quelli dall’aria più sofferente e provata sorridono. Molti scendono dai lettini, si avvicinano ai clown per prendere il fischietto o il cappello di carta. Alcuni faticano a muoversi, camminare. Vengono aiutati dai genitori, con attenzione infinita. È uno spettacolo che non si dimentica facilmente. Le differenze fra mio e tuo, vicino e lontano sono come abolite. Adesso nel reparto si sente soltanto una voce antica quanto la specie stessa, la voce degli uomini e delle donne che si muovono per andare incontro, offrire aiuto e sollievo a chi non ha difese. «Io lavoro in una pizzeria», dice Angela durante una pausa dello spettacolo. Ha vent’anni, occhiali dalla montatura sottile e cappellino a forma di banana sulla testa. «Sono entrata gruppo due anni fa, in un periodo abbastanza brutto della mia vita. Avevo appena lasciato il mio ragazzo e mi sembrava di girare a vuoto». I suoi modi tranquilli tradiscono una volontà molto forte. Si avverte che l’impegno nel volontariato ha molta importanza per lei. «Si fa un corso di tre giorni per imparare le tecniche dell’improvvisazione e subito si comincia - conclude, bevendo un sorso d’acqua dalla bottiglietta di plastica -. Vengo qui ogni volta che posso». Luciana ha ventinove anni, fisico esile ed aria mite. Lavora come responsabile informatica in un’azienda di stampi. Anche il marito fa parte del gruppo dei volontari, sebbene oggi non sia presente. «All’inizio non riuscivo quasi a dormire, la notte prima delle visite - dice -. Venire qui mi agitava tantissimo! Pensavo di non essere abbastanza brava, abbastanza convincente. Adesso mi sento molto più sicura. Molti bambini mi aspettano, mi buttano le braccia al collo appena entro nella stanza. Io non ho ancora figli, ma è una sensazione magnifica».
In fondo al corridoio appare un medico. Un clown si avvicina, gli mette un cappellino sulla testa. Lui ringrazia sorridendo e scompare in una stanza con la sua cartella gonfia di lastre a radiografie sottobraccio. Un giovane infermiere che spinge un letto montato su rotelle viene ornato con collane di fiori di carta. Anche lui ringrazia con un cenno del capo. Giuliana ha ventisei anni, studia scienze politiche e vuole tentare la strada della diplomazia o delle organizzazioni internazionali. Quando ci avviciniamo, è ancora satura dall’allegria e dall’adrenalina della rappresentazione. «Prima facevo teatro in una compagnia amatoriale - racconta -. Passavamo settimane a provare commedie di Goldoni e Ruzzante. Poi ho scoperto questo impegno. Per me è una prosecuzione dell’esperienza del teatro. Un teatro più vero, se vuoi. Più immediato. Dove gesti e parole provocano reazioni dirette, visibili. E cercano di fare del bene ». Sono passate due ore. Fuori è diventato buio. I clown lasciano il reparto e tornano al pianterreno. Fra poco si cambieranno nei bagni. Parrucche e ombrellini verranno riposti nelle borse, la vita di sempre riprenderà. Nell’atrio dell’ospedale ci sono poche persone. Stefania appare un po’ stanca, come svuotata dalla rappresentazione. Scambiamo le ultime parole prima di salutarci. «Chi è il clown? - dice - Uno che vive nel fiasco. Io, che ho sempre avuto di sbagliare, con il naso finto e la parrucca in testa mi sento più leggera, come liberata». Ci sorride con aria incerta, per capire quanto lontano sia lecito spingersi. «Ho sempre sofferto d’insonnia, fin da quand’ero una ragazzina di quindici anni - dice -. Ma dormo benissimo, dopo che sono stata qui».
fonte http://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/cultura_e_tempolibero/2010/1-marzo-2010/corsia-far-sorridere-bambini-1602574746568.shtml
lunedì 1 marzo 2010
parrucche da clown e ...sorrisi
Powered by Blogger.
0 commenti:
Posta un commento